La Geopolitica di Papa Francesco tra innovazione e universalità della Chiesa

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Papa Francesco
Papa Francesco

a cura di Pietro Stilo e Dalila Ribaudo/

Che l’elezione sul soglio pontificio di Jorge Maria Bergoglio abbia in parte cambiato la visione geopolitica del Vaticano, non è un mistero per nessuno, anche per i non addetti ai lavori, basta semplicemente guardare le prime mosse adottate da Papa Francesco fin dal suo insediamento. Andiamo per ordine, cominciamo dalla nomina a Segretario di Stato del Cardinale Pietro Parolin, profondo conoscitore delle questioni latinoamericane ed asiatiche, in particolare della Cina,  sicuramente non è un caso che la scelta sia ricaduta proprio su di un uomo con tali esperienze e specializzazioni.

Il Cardinale Parolin è un diplomatico vaticano, già Nunzio apostolico, che ha ricoperto tra l’altro il ruolo di Sottosegretario di Stato durante gli anni di Papa Giovanni Paolo II. Quindi un diplomatico che ha svolto anche ruoli di governo, indirizzando la sua attività in primo luogo alle “periferie” del mondo, e non a caso, se analizziamo i discorsi in tema di relazioni internazionali di Papa Francesco, egli sottolinea spesso l’importanza della periferia e la necessità che con essa vada riallacciato e recuperato un rapporto continuo, in particolare con tutte quelle aree considerate marginali negli schemi tradizionali delle diplomazie, in particolare di quelle occidentali. Non a caso Francesco sceglie per le sue prime visite Lampedusa e Lesbo, luoghi simbolo della periferia, avamposti geografici e ideali della speranza, terre che accolgono tutti coloro che arrivano in cerca di pace, di una vita migliore e di un futuro possibile. La ricerca della periferia è per Papa Francesco anche l’attenzione per quei luoghi dove il cattolicesimo trova ancora proseliti in numero crescente, a differenza di altre aree del mondo occidentale e post-industriale dove questa tendenza sembra accennare a delle battute di arresto. Francesco nei suoi viaggi all’estero in questi anni di papato, ha visitato numerosi paesi del sud del mondo: Filippine, Sri Lanka Corea del Sud, Giordania, Israele e Palestina, giusto per citare alcuni esempi; e sicuramente non è un mistero che abbia l’intenzione (forse non molto vicina nei tempi) di visitare anche la Cina.

La riapertura verso Pechino è uno di quei momenti di cambiamento della politica diplomatica di Francesco, un’apertura particolarmente importante che segna una nuova cesura storica che va dalla fine degli anni 90 ai giorni nostri, come testimoniano le recenti nomine cardinalizie e l’accordo sulle nomine dei vescovi. Tuttavia, lo scacchiere diplomatico di Papa Francesco non è solo state-by-state, il Pontefice “riformatore” comprende e valorizza le istituzioni internazionali come strumento pacifico delle relazioni internazionali, ritagliandosi un ruolo maggiormente attivo e propositivo nei confronti dell’ONU, per citare un esempio il 7 febbraio di quest’anno, l’arcivescovo Bernardito  Auza, Nunzio apostolico e Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite si è espresso, tramandando il messaggio giubilare di Francesco in occasione della 55.ma sessione della Commissione per lo Sviluppo Sociale sul tema “Strategie per sradicare la povertà e raggiungere uno sviluppo sostenibile per tutti”, menzionando la lotta alla povertà, la misericordia e la pace come le uniche possibili strade per contrastare le disuguaglianze sociali e la povertà.  Questo ci offre l’immagine concreta di un Papa che cerca o evidenzia anche nei rapporti internazionali l’universalità della Chiesa cattolica. Un Vaticano quindi attore geopolitico globale, capace di far sedere allo stesso tavolo anche avversari politici, come ad esempio il Presidente della Colombia Manuel Santos ed il suo predecessore Alvaro Uribe, prima alleati di ferro poi acerrimi nemici in seguito alle differenti prese di posizione sui negoziati di pace con le Farc, il primo favorevole ad una pacificazione del conflitto anche con delle concessioni, il secondo contrario a tale linea considerata morbida. Oppure lo ritroviamo in Repubblica Democratica del Congo, nella difficile trattativa con il Presidente Joseph Cabila, così come nel difficile processo di pace in Medioriente, contesto quest’ultimo frammentato e flagellato da numerosi conflitti e diatribe in corso.

Una svolta importante  nel solco del cambiamento, è stata la visita nel 2016  del patriarca copto d’Egitto, il papa Tawadros II che ha segnato l’interruzione, dopo 40 anni, della chiusura di una parte del mondo arabo verso la Santa Sede. Facendo il giro del globo, il Pontefice ha esportato con i suoi metodi, la sua “diplomazia” della misericordia, che rappresenta il cuore del tessuto diplomatico della Santa Sede, dando una direzione di apertura, novità e cambiamento. Il tutto in nome della pace e della misericordia divina, ma anche in nome della tutela dei cristiani di tutto il mondo, i quali in alcuni contesti vivono una condizione di forte disagio a causa della loro fede cattolica. Questa presenza del Vaticano sui differenti scenari sopra citati (a dire il vero sono solo alcuni esempi), è stato definito da qualcuno un interventismo a chiamata, nel senso cioè che la Santa Sede tende sempre a specificare che interviene laddove è chiamata a farlo dalle parti in causa, senza pretese di ingerenze negli affari politici degli Stati, partecipando solo se coinvolta. Un ecumenismo che ritroviamo anche nell’apertura al dialogo di Papa Francesco verso i Luterani e verso gli Ortodossi, insomma un Papa riformista o riformatore (che dir si voglia), che sicuramente con le sue idee e le sue scelte, sta tracciando un percorso innovativo all’interno della Chiesa cattolica romana, che lo porterà sicuramente a scolpire il suo nome nella storia.

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