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Don Nico Dal MolinRiportiamo la relazione di Mons. Nico Dal Molin, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale delle Vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana nel corso del Congresso nazionale di Serra International Italia ( Bologna 30 maggio- 1 giugno 2014).

“Se Erasmo da Rotterdam scrisse “L’elogio della follia” , credo che in questi giorni di Grazia, in cui il Serra International Italia si trova riunito nel suo Convegno Nazionale, tutti noi potremmo scrivere coralmente “l’elogio della Bellezza”.

Ed a questa straordinaria tematica – dice don Nico Dal Molin Direttore di Chiesa Cattolica.it– che costituirà il “fil rouge” del nostro prossimo anno di pastorale vocazionale, per la Chiesa italiana, vorrei introdurmi con una citazione di Oscar Wilde, maestro originale e irripetibile negli aforismi.

“La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità”. (Oscar Wilde)

A. L’uomo dislocato e la fatica del vivere

Quante persone, ai nostri giorni, fanno l’esperienza di una vita che si trascina avanti in maniera passiva, senza stimoli né motivazioni. Quante persone vivono come se la loro esperienza fosse un naufragio, mentre la loro vita va alla deriva senza controllo alcuno.

In molti è sparita la capacità di distinguere il proprio Io da quello dell’Altro; traducendo ciò in termini concreti significa la caduta totale del rispetto per la Vita e insieme l’indifferenza, e spesso un vero e proprio cinismo, verso la vita dell’altro.

– In molti è scomparsa pure la distinzione tra l’io e l’ambiente in cui si vive e, nonostante i continui appelli ad un senso di responsabilità, si ha la sensazione sempre più netta di non capire più dove finisce la propria libertà e dove comincia quella dell’Altro, dove finisce il proprio diritto e dove comincia quello degli altri.

– C’è spesso una eccessiva in¬centrazione su se stessi e, insieme, si rischia anche di vivere una forma di spersonalizzazione da ciò che si è e da quello che si crede e si fa.

– Sentiamo sempre più di frequente le persone chiedersi: “Che cosa è la fantasia e cosa è la realtà?” C’è il disagio sempre più diffuso di credere che idee e sentimenti non siano più i propri, anche se su questi si è faticato e si sono spesso fatte battaglie esistenziali per acquisirli alla propria autonomia di vita e di pensiero. E’ quasi un sentire che c’è una realtà che ti viene “imposta” dall’esterno, senza che tu possa fare molto per poter controllare quello che entra nella tua mente e nel tuo cuore.

– Il forte peso dei mass media, la suggestione delle immagini, la forza delle parole di alcuni abili persuasori che animano “talk show” televisivi e radiofonici, tutto ciò crea spesso un senso di alienazione da se stessi.

Chi è l’uomo dislocato?

Usando una bella intuizione dello psicologo e teologo di spiritualità Henri Nouwen , si potrebbe dire che esso rappresenta quel tipo di individuo, (e potremmo esserci tutti noi in questo pirandelliano “personaggio in cerca d’autore”!), che ha perduto la fede ingenua nelle possibilità della tecnologia e avverte sempre di più come quegli stessi poteri che permettono all’uomo di creare nuovi stili di vita, portano pure con sé un potenziale di autodistruzione.

Sembra di rivivere una antica storia della letteratura indiana.

“C’erano quattro principi di sangue reale. Essi partirono, ognuno per proprio conto, alla ricerca di una “scienza” speciale” in cui eccellere. Così decisero e, dopo avere concordato la data e il luogo del loro futuro incontro, andarono ciascuno per una direzione diversa.

Il tempo passò e i quattro principi, nel momento e nel luogo stabilito, si ritrovarono puntuali all’incontro stabilito.

Il primo affermò di avere imparato una scienza che gli permetteva di creare, da un solo pezzetto d’osso, un essere vivente ricoperto di muscoli e carne.

Il secondo precisò di essere in grado di far crescere la pelle e il pelo su quell’osso ricoperto di carne.

Il terzo aggiunse subito di sentirsi in grado di modellare le membra di questo strano essere informe.

Il quarto, infine, concluse che egli poteva dare la vita a questa creatura, se la sua forma fosse stata completa di membra.

Così i quattro giovani principi andarono nella giungla per trovare il pezzetto d’osso che serviva per dare il via alle loro spettacolari abilità. Trovarono un osso, lo raccolsero e si misero all’opera; ma non sapevano a chi quell’osso appartenesse…

Destino volle che, mettendo insieme la loro scienza, da quell’osso prendesse forma e vita un leone in tutta la sua forza e maestosità; questi, scuotendo la sua folta criniera, mostrò le sue fauci minacciose e i suoi denti aguzzi e balzò sui suoi “creatori”.

In un attimo li uccise e poi scomparve nella giungla, soddisfatto!”

Questo è l’uomo di cui stiamo parlando; questi siamo noi! Ci rendiamo conto che il grande potere creativo che abbiamo sviluppato porta con sé un potenziale di autodistruzione.

E’ un uomo che non è più a suo agio con se stesso, vive insoddisfatto ed inquieto, in balia delle sue paure, spesso inconsce.

E’ un uomo che non è a proprio agio neppure nell’ambiente, perché tocca sempre più con mano l’evidenza di un alterato equilibrio ecologico, di un’aria satura di tanti elementi inquinanti, che è stordito dal rumore di molti decibel assordanti, che è instupidito da troppe luci sempre più sofisticate e violente.

Un uomo (e siamo noi!) che fa tante cose, ma ha perduto la capacità di capire il funzionamento e soprattutto il perché dell’uso degli strumenti presenti nella vita di tutti i giorni: l’automobile, la tv, il cellulare, il PC…

Il problema che forse si pone in maniera più drammatica, non è quello di non voler pensare al futuro, di non avere progettualità sul proprio avvenire, ma di chiedersi se davvero ci sarà un futuro ed un avvenire: e questa domanda è davvero inquietante e angosciosa.

Guardiamoci negli occhi

Il modo migliore per capire quello che sta passando nel cuore di una persona, se davvero essa vuole essere trasparente e non menzognera, è quello di guardarla negli occhi.

Gli occhi sono lo specchio dell’anima – dice un vecchio proverbio diffuso a tutte le latitudini. Lo sguardo negli occhi va diritto anche al cuore e lì si può capire quello che crea tensione e angoscia, malinconia e demotivazione, voglia di scegliere e paura di lanciarsi in una decisione.

La prima sensazione che si potrebbe avere, in questo sguardo profondo negli occhi e nel cuore, è quella che la vita sia un po’ come un arco dalla corda spezzata, da cui non si può far partire la freccia. Questa “dislocazione” crea paralisi.

Si potrebbe quasi dire che i sentimenti fondamentali non siano più di dolore o di gioia, di ansia o di pace interiore, ma piuttosto di indifferenza e di noia. Sto pensando allora che la grande domanda del Cristianesimo non dovrebbe essere tanto se Dio esiste o non esiste, ma se il messaggio del Vangelo, che Gesù di Nazareth ci ha portato, abbia una sua forza di liberazione e di propulsione per un cuore che si sente prigioniero, schiavizzato e alienato.

Forse dobbiamo ancora renderci ben conto che la storia non è più giocata sulla grande e certamente fondamentale domanda della esistenza o meno di Dio, ma sulla forza di dare delle risposte “liberatorie” e quindi defatiganti all’uomo smarrito e confuso dei nostri giorni.

Un altro aspetto che fa sentire malato il cuore dell’uomo, oggi, è la rapida mutevolezza dei valori.

Un tempo neppure tanto lontano essi avevano la tenuta di una tradizione familiare e sociale: guai a toccarli!

Oggi tutto diventa relativo: un’esperienza è buona, ma lo è anche un’altra, spesso perché non ci sono dei punti di riferimento ai quali ancorarsi saldamente, per poter valutare in maniera serena e critica quello che ci sta accadendo.

E domani? Domani potrebbe essere tutto diverso da oggi: dipende dalla gente che si incontra, dalle esperienze che si fanno, dalle idee e dai desideri che sembreranno logici in un dato momento della nostra vita.

Certo, la caduta delle ideologie con le loro rigidità e i loro statuti fissi, ha portato a tutto questo; ma questa non è fluidità o liquidità (come ci direbbe il sociologo Zygmunt Bauman ), non è mediazione. E’ semmai trovarsi in mano un vaso andato in frantumi e non sapere cosa farsene dei cocci; è vedere la vita come un puzzle totalmente scomposto e sul quale non c’è nessuna voglia di porre mano per dargli un ordine.

Dovremmo diventare esperti di “collage”, quasi fatalmente rassegnati a pensare che la vita si vive improvvisandola e che non c’è più qualcosa di vero e di valido sempre e dovunque.

E’ una musica che è ben lontana dalle grandi sinfonie, perché i temi dei vari compositori vengono presi e mixati fra loro senza logica e nella più totale improvvisazione.

Certo, anche questo è nuovo, ma è dissonante e… molto improvvisato.

• Tra luce e tenebre

Già nella Bibbia si parla di figli della luce, quindi di uomini e donne aurorali, alla ricerca del giorno; in contrasto con essi stanno i figli delle tenebre, i figli della notte.

Sappiamo che questo è uno dei grandi temi ricorrenti nel vangelo di Giovanni, presente soprattutto nel capitolo 1°, il cosiddetto “prologo”, letto nel tempo natalizio.

Ciò domanda attenzione e vigilanza, perché tante cose banali, superficiali, persino volgari, non si impossessino del nostro cuore e della nostra vita e non si trasformino in una giungla inestricabile, dove ogni percorso nasconde un possibile trabocchetto.

Ma non vogliamo essere solo pessimisti: guardiamo quello che succede al girasole. E’ stupendo osservare come esso continui, in maniera quasi ostinata e testarda, a volgere la sua corolla verso il sole.

E’ come l’uomo: possiede in sé una possente forza eliocentrica che lo spinge verso l’azzurro del cielo, verso la luce del sole.

Ma nel cuore dell’uomo c’è anche un impulso fatale che lo attrae, come forse nessun altro essere esistente in natura, verso le tenebre, verso la cattiveria e il male. E ne abbiamo tanti esempi sotto gli occhi, giorno dopo giorno, purtroppo!

C’è una piccola regola che potremmo fissare dentro di noi come barometro della nostra forza eliocentrica : quando si perde la attenzione e il senso di comprensione verso la difficoltà della singola persona, quando di tende a massificare la sofferenza, allora si comincia ad essere “dis locati, dis¬umani”, si tende perciò ad entrare nella sfera di tenebra e a non lasciarsi più attrarre dall’orbita di luce, dalla forza tonificante del sole.

Se è vero che Gesù ha dato se stesso gratuitamente per ciascuno di noi, vogliamo credere, osiamo sperare che proprio in questa radicalità e totalità dell’Amore Gratuità c’è la fiamma capace di far divampare la scintilla divina che ogni cuore umano porta dentro di sé.

Questa è la certezza di chi vuole ri centrare la propria vita guardando verso il Sole, Dio.

B. Lo sguardo sapienziale di Qohélet

Il testo biblico che fa da sfondo a questo ulteriore spunto di riflessione sul tema dell’Accompagnamento spirituale e vocazionale e delle possibili resistenze, dei blocchi nel cammino di una scelta a venire o della fedeltà alla scelta già fatta nella Vita Consacrata e nel ministero presbiterale”, potrebbe essere Geremia 2,13:

“Il mio popolo ha commesso due iniquità:

essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva,

per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua”.

Volendo dare attualità alla grande carica espressiva della immagine di Geremia, come potremmo noi ritradurre, oggi, questa rincorsa alle cisterne screpolate? Quali sono le screpolature aride del cuore, le sue malattie?

Mi aiuterò con una serie di riferimenti ad un testo biblico che qualcuno, per il suo terribile realismo, tende a considerare addirittura pessimistico, scettico e quasi ateo.

E’ il libro di Qohélet, 12 capitoli, 222 versetti, che danno luogo al testo più scandaloso e originale dell’Antico Testamento.

Qohélet suggerisce le sette malattie che intaccano lo spirito, e lo fa in una maniera che sembra pacata, ma in realtà è assolutamente corrosiva.

Ha proprio ragione Georges Bernanos, nei “Grandi cimiteri sotto la luna” , quando accosta i due testi di Giobbe e Qohélet come antidoto alla dilagante banalità del nostro tempo: “A tanta gente occorre un certo numero di luoghi comuni da ripetersi scambievolmente, come pappagalli, con i loro movimenti affettati, gli impettimenti e le strizzatine d’occhio di quell’uccello. Ma non si possono nutrire i pappagalli col vino aromatico del libro di Giobbe o dell’ Ecclesiaste”.

(Qohélet in ebraico si dice qahàl, che significa assemblea; in greco ekklesìa, da cui il greco latino Ecclesiastes).

“Leggendo Qohélet non se ne esce indenni, ma adulti o pronti a diventarlo …” afferma l’esegeta biblico André Barucq.

Ed allora, proviamo ad addentraci in queste malattie dello spirito, che fanno luce anche sul problema delle sofferenze che costellano il cammino umano e danno vita ad una dislocazione esistenziale e spirituale.

1. La parola è malata

Tutte le parole sono logore (Qohélet 1,6). E’ la crisi del linguaggio, l’inflazione della parola; le parole banali e vuote, la ragnatela della chiacchiera e dei luoghi comuni che Luca Goldoni così bene descrisse nel suo “Diario Blu” .

In ebraico il termine “debarìm” (parole) significa non solo qualcosa che si dice, ma anche qualcosa che viene fatto. La parola di Dio è “dabàr”: dice e fa.

E invece le nostre parole si fermano nel vuoto del dire, mancano spesso di compiutezza; sono, come direbbe il Piccolo Principe… “effimere”.

Tutte le parole sono già state dette, afferma Joseph Roth, nel suo Mercante di coralli; ma noi ci ostiniamo a parlare e a snobbare il silenzio come fonte di sobrietà, essenzialità e ricarica interiore.

Prima sofferenza:non riusciamo a comunicare in profondità quello che viviamo, proviamo, crediamo. Questo non permette una operazione trasparenza nelle nostre relazioni di vita

2. Siamo ammalati di … dover fare

Oppure, come ama dire Qohélet, di “àmal”, di faticare. La vita diviene frenesia costante, con sempre tante cose da fare. Non puoi fermarti mai, non ti è concesso e così il lavoro che dovrebbe nobilitare l’uomo, diviene fatica, travaglio (travail, in francese!). E noi cadiamo nello stress, nella sindrome del “burnout”: scoppiati, svuotati di ogni energia…

“Quale valore ha tutta la fatica, che affatica l’uomo sotto il sole?” (Qo. 1,3). E rincara la dose in Qo.2,20.

Seconda sofferenza: è sempre più forte il senso di saturazione, frustrazione e impotenze di fronte a tutte le richieste che ci arrivano da tutte le parti. Ci si misura sempre più sul metro dell’efficientismo, con grande disagio psicologico e spirituale.

3. La crisi dell’intelligenza

Qohélet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10). Egli disprezza la stupidità, però è anche consapevole che nel cercare la sapienza non ci può essere vanità, per metterla i mostra, per diventare degli show-men dell’intelligenza, vanitosi e pettegoli nei salotti televisivi.

“Infatti, grande sapienza è grande tormento; chi più sa, più soffre” (Qo 1,13-18).

Il rischio è quello di pensare di avere avuto chissà quale folgorazione, chissà quale intuizione, e invece c’è già stato chi ci ha preceduto. Il paradosso della sapienza è che la vera sapienza consiste nel sapere che la sapienza è vento, quando pretende di essere suprema, di darti, da sola, l’unica verità.

Ma allora, che differenza c’è tra sapienza e stupidità? Il sapiente è inquieto, è in costante ricerca; l’ignorante vive nella sua stupida ilarità.

Quanti personaggi a noi contemporanei, che si credono chissà chi, potrebbero sentirsi qui fotografati.

Il vocabolo “ka’as”, che Qohélet usa, dice sofferenza, tensione, peso interiore; ma anche indignazione per l’uso che viene fatto della intelligenza.

Terza sofferenza:è sempre più evidente il disagio di non poter dedicare del tempo alla nostra formazione personale, sia intellettuale che sapienziale. Si corre il rischio di vivere di rendita, di luoghi comuni, di ovvietà e banalità.

4. La fragilità e inconsistenza dell’esistenza umana

E’ il canto ultimo del libro (Qo 11,7-12,8), costruito in maniera tale da contrapporre la meraviglia della giovinezza all’affondare dell’uomo nel baratro e nella vertigine dei giorni tenebrosi dello sfacelo senile e della morte.

E’ come entrare in un vecchio castello in rovina, in una grigia giornata di inverno; un po’ come ci fa vivere Virginia Woolf nel suo romanzo “Gita al Faro”. Si incontrano vecchi tremolanti, uomini decrepiti e curvi che dovrebbero essere di guardia…; donne che non sanno più macinare il grano per la loro debolezza. Lo sguardo si alza sui graticci delle finestre e non si vede il tipico balenare degli occhi femminili: tutto è silenzio. Anche le canzoni, in ebraico “le figlie del canto”, si affievoliscono e tacciono. (Qo 12,3-4).

Le alture sono fonte di vertigine, il mandorlo ha già ultimato la sua fioritura, la cavalletta perde la sua agilità, il cappero non é più capace di esercitare il suo potere afrodisiaco. (Qo 12,5).

Il legame con la vita viene spezzato: il filo d’argento è tagliato; al filo è appesa una sfera dorata che cade a terra, in frantumi; e poi si spacca in mille pezzi la brocca per attingere l’acqua; infine, la carrucola cade nel pozzo profondo e non si può più attingere da bere… (Qo 12,6-7)

“Havél havalìm”: tutto è vuoto

Quarta sofferenza: senza arrivare allo sfacelo devastante e terribile che descrive Qohelet, tuttavia il senso della solitudine affettiva, del vuoto interiore, della inefficacia del nostro impegno, delle conflittualità relazionali, della poca comunicazione interna ai nostri ambienti, crea un circolo vizioso di pesantezza e di sfiducia, se non di rabbia diffusa, che come tarlo corrode motivazioni e vitalità delle scelte.

5. Il silenzio di Dio

Il Dio di Qohèlet è un Dio nascosto! “Dio è nei cieli e tu stai sulla terra… perciò, poche parole!” (Qo 5,1).E’ un dialogo bloccato, è un Dio lontano. Ma come possiamo accettare un testo così scandaloso?

Se è vero che nella bibbia la parola di Dio può esprimersi anche in vesti misere e povere, può farsi domanda e supplica nei Salmi, imprecazione in Giobbe, essa diviene dubbio in Qohélet.

Nella stessa crisi dell’uomo e nel silenzio di Dio c’è una parola e una presenza divina; il silenzio di Dio non è necessariamente una maledizione, ma l’occasione di un incontro attraverso strade inedite e sorprendenti. Qohélet è la testimonianza più vera e anticipatoria di un Dio vicino, non per la sua onnipotenza, ma per la sua “incarnazione”: è quello che Gesù ha vissuto e rivelato!

Non è casuale che nella Bibbia, subito dopo Qohèlet, si incontra il testo dell’Amore e della Gioia cercata e trovata: il Cantico dei Cantici.

Ecco un’altra applicazione: qui il problema che si pone è quello di una Fede predicata e spesso data troppo ovviamente per scontata, ma che invece non è adeguatamente supportata da un cammino spirituale e di interiorità: davvero credo che la crisi profonda del nostro tempo sia una crisi di spiritualità e di interiorità.

C. La via delle Bellezza: la via “Estetica” nell’incontro con Gesù

Il ricentrare la pastorale vocazionale attorno alla figura e al volto di Gesù, come già si è notato, non è certamente una operazione di particolare novità; ma potrebbe diventarlo, nella misura in cui si mettono in luce alcuni aspetti particolari del fascino del volto di Cristo, a cui i giovani oggi possono rivelarsi veramente più attenti e sensibili. Vorrei provare a suggerire, fra le tante possibili, tre piste di approfondimento e di accompagnamento vocazionale, in sintonia con la realtà del nostro mondo giovanile.

Sappiamo bene come i nostri fratelli della Chiesa Orientale hanno sempre tenuto in grande considerazione la “dimensione del bello” presente nel cammino umano e spirituale di ciascuno. Potrebbero farne fede gli scritti sempre molto affascinanti del teologo orientale Pavel Evdokimov . In lui prende risalto tutto lo straordinario mondo della icone, per darci una chiave di lettura quanto mai significativa della “via della bellezza” come via per incontrare il volto di Dio. C’è una sua espressione che trovo particolarmente significativa ed emblematica:

“Dio rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della sua gloria che è sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). La luce risplende nei volti dei tuoi santi -canta la Chiesa. L’icona è una simile dossologia, un torrente di gloria, e la canta con i suoi propri mezzi. La vera bellezza non ha bisogno di prove: è una evidenza eretta come argomento iconografico della verità divina. È questa qualità a dare il contenuto intelligibile alle icone, che è dogmatico, e perciò l’icona non è bella come opera d’arte, ma è bella come la verità. Una icona non può mai essere graziosa; essa è bella, e per questo esige una maturità spirituale per essere riconosciuta. (…) L’immobilità esterna delle figure è molto paradossale, perché essa crea una forte impressione che qualche cosa si muove all’interno”.

Anche la teologia occidentale, seppur in misura più ridotta e castigata, ha avvertito l’importanza di questo sentiero da percorrere e sicuramente il grande testimone di questa modalità di approccio resta il teologo Hans Urs Von Balthasar .

La mia suggestione non intende percorrere gli straordinari abissi di queste vie teologiche, che pure sono al fondo di una rinnovata riflessione “estetica”, anche in chiave vocazionale. Sto semplicemente pensando a quanto sia stata profetica l’affermazione di Fedor Dostoevskij , nel suo romanzo “L’idiota”, quando affermò: “La Bellezza salverà il mondo”. E quando si entra nel vasto territorio della bellezza, i confini sono sterminati e ci si può lasciare andare lungo queste immense praterie, che si perdono a vista d’occhio.

Non è un riferimento angusto ai canoni estetici della bellezza che la moda dilagante oggi ci propone con le sue sfilate di vip più o meno tali; con i suoi areopaghi in cui parlare di questo e in cui ritagliarsi a tutti i costi un pezzetto di visibilità ostentata; con il circo mass-mediatico in cui imperversano gli istrioni dei canoni estetici e le proposte, spesso al di là di ogni limite della decenza, di lifting, beauty¬farm, creme, pozioni e soluzioni magiche per ogni tipo di problema fisico.

È davvero il ritorno al Circo fatto di clown, donne cannone, nani e ballerine: non certo al Circo amato dai bambini o dai grandi poeti del circo stesso: Fellini, Benigni, Jacques Tati…

Come si può arrivare al volto di Gesù, riscoprendo la molteplici vie della bellezza umana?

Personalmente credo ci sia solo l’imbarazzo della scelta, anche se è importante poi individuare i generi letterari appropriati per ogni assemblea a cui ci rivolgiamo: la via delle icone a cui ho fatto cenno è certamente un approccio suggestivo, anche se richiede una certa raffinatezza spirituale.

Un’altra via possibile da percorrere, e alla portata di molti, oggi, è quella dell’arte: e non semplicemente perché in essa troviamo un’enorme presenza di soggetti religiosi, ma perché la conoscenza dell’arte, antica o rinascimentale, moderna o contemporanea, fornisce dei criteri di lettura straordinari per capire il cuore dell’uomo. In ogni opera d’arte l’artista cela qualcosa di sublime, che rivela qualche tratto del volto di Dio. È davvero straordinario girare per i tanti musei e le mostre di arte che sempre con più abbondanza vengono proposte e trovare famiglie con bimbi anche piccoli, in grado di guardare con passione l’opera dell’artista. E lo stesso si può dire per il mondo dei giovani, che sempre più trovano nell’arte la possibilità di scoprire non solo le risorse straordinariamente vive e creative dell’ingegno umano, ma soprattutto alcune vie per giungere diritti ai sentimenti e al cuore. Mai potrò dimenticare una visita alla Pinacoteca di Brera a Milano: mentre compievo il mio piccolo tour personale, ecco l’incontro con un gruppo di bambini delle prime classi della scuola elementare, accompagnati dalle loro straordinarie maestre. Esse, partendo dal piccolo “escamotage” di far individuare ai bambini gli animaletti dipinti in quadri molto famosi, davano delle chiavi di lettura “giocosa” per far loro gustare, pur così piccoli, la bellezza dell’opera d’arte nel suo insieme e per tracciare l’identikit dell’artista. Oppure, potremmo anche ricordare gli itinerari sempre più frequenti di “arte e spiritualità”, che vengono proposti in città famose come Venezia, Firenze o Roma, tanto per citarne solo qualcuna e che fanno gustare un itinerario interiore che vale tanto quanto una intensa e profonda meditazione… Provare per credere!

Vicino all’arte accosterei, poi, la via della musica: in essa, nelle sue molteplici espressioni, i giovani trovano dei riferimenti mirati e chiari per leggere i loro stati d’animo, gli affetti e i sentimenti, i loro desideri, il loro modo di guardare alla vita e di coglierla nella sua complessità, con tutte le possibili contraddizioni, ma anche con le sue positive suggestioni.

Si può aggiungere, accanto alla musica, la via della danza e di ogni espressione della corporeità che diviene una notevole opportunità di espressione del linguaggio del corpo e dei sentimenti. Ahimè, queste sono delle vie sulle quali spesso noi siamo davvero poco allenati o muniti di strumenti piuttosto inadeguati, se non antiquati.

Vorrei qui aggiungere la via della letteratura, della poesia e del romanzo; molti autori contemporanei aiutano, attraverso i loro scritti e le loro intuizioni, a dare voce a quelle che saranno le tendenze di un futuro prossimo e a cogliere spaccati importanti per decodificare la realtà culturale in cui ci si muove.

C’è poi tutto il mondo della filmografia e della lettura dell’immagine: oggi si comunica moltissimo attraverso questo mezzo, e una adeguata scelta di quanto viene proposto ci aiuta a tastare il polso della situazione su tematiche emergenti, di fronte alle quali spesso noi facciamo la figura di “Alice nel paese delle meraviglie”.

E ancora, come non riproporre, attraverso un contatto diretto e forte, la bellezza della natura e del creato; ci saremo accorti un po’ tutti che i nostri statici campi scuola non trovano molte adesioni, ma se si propone un “cammino”, un “pellegrinaggio” che sappia anche gustare la bellezza dei luoghi attraverso i quali si passa, questa opportunità trova molta più accoglienza e adesione. Anche se dobbiamo sottolineare il rischio di una inflazione di proposte, spesso non sempre curate e significative sotto questo profilo.

Non vorrei dimenticare, infine, la via privilegiata della bellezza: il “miracolo stesso della vita”. E’ un aspetto che diamo per scontato, ma oggi, in questa cultura di cinismo e di morte che come una nebbia radente avvolge tutto, è importante tornare ad evidenziare la bellezza del dono della vita e di come spenderla con scelte significative: qui diviene piuttosto spontaneo e immediato l’aggancio vocazionale con la figura di Gesù, con le sue varie “chiamate” raccontate nel Vangelo; e ancora con le testimonianze a volte eroiche, ma più spesso semplici e ordinarie di “testimoni”, che hanno amato la vita e l’hanno gustata e trasmessa con sapienza e con gioia.

Questa è la via della bellezza, che può diventare un cantiere vocazionale sempre aperto e nuovo; come diceva il già citato teologo ortodosso Pavel Evdokimov. Essa non ha bisogno di prove e ragionamenti, ha solo bisogno di essere proposta con “verità”: nulla è più coinvolgente e affascinante della verità. E la bellezza di Gesù si riassume proprio in una espressione quanto mai legata a questo processo di ricerca: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

Tre parole immense, che nessuna spiegazione può e¬saurire.

Io sono la via: la strada per arriva¬re a casa, a Dio, al cuore, agli altri; una via davanti alla quale non si erge un muro o u¬no sbarramento, ma orizzonti aperti. Sono la strada che non si smarrisce, ma va’ verso la storia più ambiziosa del mondo, il so¬gno più grandioso mai sognato, la conquista – per tutti – di amore e libertà, di bellez¬za e di comunione: con Dio, con il cosmo, con l’uomo.

Io sono la verità: non in una dottrina, né in un libro, né in una legge migliori delle al¬tre, ma in un «io» sta la verità, in Gesù, ve¬nuto a mostrarci il vero volto dell’uomo e il volto d’amore del Padre. La verità sono oc¬chi e mani che ardono! (Christian Bobin). Così è Gesù: accende occhi e mani. La sua è una vita che si muove libera, regale e amorevo¬le tra le creature. “Il cristianesimo non è un sistema di pensiero o di riti, ma una storia e una vita” (Francois Mauriac ).

Io sono la vita: che hai a che fare con me, Gesù? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere.

E vorrei concludere con un augurio a tutti voi. Lo faccio, traendolo da un grande scrittore del XIX secolo, Oliver Wendell Holmes (senior), nel suo romanzo del 1860, “Il professore alla prima colazione” :

“La Saggezza è la sintesi del proprio passato, ma la Bellezza è la più grande promessa del futuro”.

Nico Dal Molin – Direttore Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni della CEI

[1]François Charles Mauriac (Bordeaux, 11 ottobre1885 – Parigi, 1º settembre1970) fu uno scrittore e giornalista francese, premio Nobel per la letteratura nel 1952; vincitore del Grand Prix du Roman, fu anche membro dell’Académie française, giornalista e critico letterario per Le Figaro, decorato con la Legion d’onore.

[1]Oliver Wendell Holmes, Sr. (Cambridge, 29 agosto1809 – Cambridge, 7 ottobre1894), è stato un medico, insegnante e scrittore statunitense. Considerato dai suoi contemporanei come uno dei migliori scrittori del XIX secolo.

Fonte: Mons. don Nico Dal Molin, Chiesa Cattolica. it, www.chiesacattolica.it; Serra International Italia, www.serraclubitalia.it,

 

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Sabato 16 dicembre ha luogo l'udienza particolare con Papa Francesco e la rappresentazione alla Basilica di Santa Maria Maggiore "Città dei Presepi"...