Il Vaticanese

Politica, perché ha bisogno della religione

Lorenzo Ornaghi

Le grandi tendenze della storia, quelle che producono cambiamenti estesi, intensi e duraturi, spesso procedono per lungo tempo sommerse e non avvertite dalla maggior parte di noi, per poi manifestarsi all’improvviso e, non di rado, con violenza. L’evento o gli eventi che portano alla luce simili tendenze inquietano e, quasi sempre, accrescono la paura di individui e collettività per il futuro che li attende. Così è accaduto anche per la lunga tendenza «moderna», sotto la cui spinta la «laicità» dello spazio pubblico sembrava dover imporre l’insignificanza – o addirittura l’ostracismo – di ogni riferimento al sacro e al senso religioso. L’11 settembre ci ha colti di sorpresa. E proprio l’evento dell’11 settembre, nel momento stesso in cui ha mostrato la vulnerabilità dei sistemi di convivenza dell’Occidente, ha costretto a prendere atto della lunga tendenza che aveva distorto – e, nella noncuranza dei più, continuava a svilire – il rapporto tra religione e politica. Nello splendido romanzo La sfera e la croce del 1909, Gilbert Keith Chesterton mette in scena l’eterna lotta tra fede e ateismo, incarnandola in due uomini: Turnbull, editore del giornale L’Ateo ed emblema del razionalismo; Mac Jan, ruvido scozzese legato alle tradizioni e incline al misticismo. Siamo nei primi anni del XX secolo. Per l’Europa, per la sua cultura prevalente, per le sue classi dirigenti e per i ceti borghesi, la stagione della Belle Époque sembra dover e poter proseguire senza fine, sospinta dal vento dell’irresistibile progresso.

I personaggi secondari del romanzo non prendono posizione rispetto al conflitto che oppone i due protagonisti. La tranquillità della vita «normale», un’ordinaria esistenza senza scossoni, è il loro interesse principale.

Il duello fra l’ateo e l’uomo di fede viene a disturbare, più che a turbare e a far pensare.

All’epilogo del romanzo, i duellanti, che si sono a mano a mano conosciuti nel corso dei loro scontri, incominciano a comprendersi l’un l’altro. Turnbull confida all’avversario di aver sognato che la Croce «era stata divelta mentre la Sfera era intatta al suo posto». A sua volta, Mac Jan riconosce la necessità di «un mondo sferico sul quale piantare la Croce»: come «noi non possiamo credere che la sfera rimarrà sempre una sfera», così «non possiamo credere che la Ragione sia sempre ragionevole». In modo nitidissimo, il duello fra i due personaggi di Chesterton rispecchia i termini in cui la modernità ha concepito la relazione fra ragione e fede. Pressoché l’intera cultura europea, dall’Ottocento in poi, ha indicato nella secolarizzazione uno dei presupposti indispensabili della modernizzazione. Il progresso delle società, lo sviluppo economico, l’affermarsi delle democrazie e della politica di massa, necessariamente portavano con sé la contrazione e la perdita di valore del «sacro», sempre più sfidato (e talvolta irriso) dalla «razionalità» che guidava gli avanzamenti e illuminava i risultati delle scienze e della tecnica. Senza significative variazioni, il convincimento che la marcia della secolarizzazione fosse inarrestabile rimase saldo e divenne sempre più diffuso nelle scienze sociali fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Le trasformazioni delle società occidentali sembravano confermare empiricamente quel convincimento, impedendone ogni razionale confutazione.

Qualcosa di inatteso, però, incominciava già a essere percepito in quel periodo. Fuori dall’Occidente, si manifestano i primi fermenti che, in seguito, daranno forma al ritorno sulla scena politica dell’islam, nelle sue differenti manifestazioni. E anche all’interno del mondo occidentale, peraltro, si fanno più chiaramente percepibili le tracce di quel fenomeno che Gilles Kepel ha definito, in termini evocativi, la revanche de Dieu . Anche nel dibattito contemporaneo, persistono i riflessi della deformazione del rapporto fra modernizzazione e religione. Il ritorno delle religioni – ridotto alle espressioni fanatiche del fondamentalismo o, addirittura, del terrorismo – viene spiegato sovente grazie a una chiave di lettura, per dir così, «primordialista». La presenza della religione nell’ambito pubblico sembra allora contrastare proprio la laicità di un tale ambito. E per molti studiosi, com’è noto, la religione, proprio perché è componente essenziale e inscindibile di una civiltà, oggi riaffiora in Occidente solo per il fatto che la civiltà di quest’ultimo è o si sente minacciata.

Una simile connessione fra religione e civiltà non solo è ambigua, ma risulta inadeguata a comprendere e orientare le trasformazioni che hanno investito le nostre società. In primo luogo, si dimentica che – come ha notato in alcuni studi importanti Olivier Roy – le espressioni violente di fanatismo religioso nascono spesso da una concezione individualistica della pratiche religiose, e cioè da una netta, radicale rottura con le forme religiose consolidate dalla tradizione. In secondo luogo, la visione primordialista sottovaluta uno dei fenomeni più importanti che ha contrassegnato il Novecento: la diffusione mondiale – dunque ben al di fuori delle civiltà originarie – del cristianesimo e dell’islam, secondo dinamiche che scaturiscono dalla combinazione della evangelizzazione, della demografia, dei conseguenti flussi migratori.

 

Infine, quando si interpreta il ritorno del sacro nei termini di un ritorno di elementi primordiali, si sottovaluta il fatto che la revanche de Dieu investe in profondità anche l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti. Tanto che ci si è chiesti se la secolarizzazione del Vecchio continente, lungi dal prefigurare una tendenza inarrestabile, non rappresenti invece un’eccezione. Ma la rivincita di Dio non è affatto l’esito di un rifiuto totale della modernizzazione. Semmai, essa genera la necessaria critica di una particolare, benché assai diffusa, visione della modernizzazione.

Forse – come ha sostenuto Shmuel Eisenstadt – il ritorno globale della religione è il risultato dell’affermazione di «modernità multiple»: proposte che vanno a declinare in modo specifico il progetto, pur nutrito di contraddizioni e ambivalenze, proprio della modernità occidentale. Ma, soprattutto, la rivincita di Dio testimonia l’esaurimento di una determinata visione della modernità: una visione in cui la fede nella scienza, nella ragione, nella tecnica, è intesa nei termini di un conflitto irresolubile con la fede religiosa.

In questo senso, dunque, la rinascita globale delle religioni è la manifestazione della disillusione non tanto nei confronti della ragione, quanto nei confronti della ragione secolarizzata, di cui le religioni politiche novecentesche – le ideologie – hanno fornito una rappresentazione che non si è ancora conclusa. Questa disillusione fa affiorare tutte le contraddizioni implicite nella struttura storico-logica della ragione secolarizzata. E, al tempo stesso, il declino (o la fine) delle ideologie novecentesche ripropone con forza, in un contesto del tutto mutato e in una condizione di continui cambiamenti, la questione di come vedere il progresso e di quale senso riconoscere nella storia. È il problema a cui le ideologie moderne avevano risposto secolarizzando l’escatologia giudaico­cristiana. Ed è quello stesso problema che oggi, al declinare delle ideologie e all’incrinarsi di quel superficiale elemento di coesione costituito dal secolarismo, torna in modo nuovo a scuotere soprattutto la vita di ogni individuo, le intere società e la politica dell’Europa. La presenza della religione nell’ambito pubblico è soprattutto necessaria per poter guardare con speranza al futuro delle democrazie e, quindi, al domani dei popoli che nelle democrazie continuano a vedere lo strumento migliore per promuovere la libertà e la creatività dell’uomo. Non è senza significato che un numero crescente di studiosi stia sottolineando come la presente crisi delle democrazie contemporanee non sia soltanto determinata dai colpi dell’economia e della finanza del sistema globale, o dalle crescenti insostenibilità di un welfare illusoriamente garantito per sempre dallo Stato. Dopo aver consumato le illusioni di una trascendenza integralmente «politica», le nostre società tornano a confrontarsi con la domanda sul senso della convivenza: tornano cioè a interrogarsi sul significato più profondo dell’appartenere a una comunità, e dunque sulla radice autentica dell’essere cittadini. Ma il logoramento della trascendenza politica lascia il cittadino solo dinanzi a se stesso: solo dinanzi a domande immutabili che non possono trovare una risposta adeguata nell’insaziabile moltiplicazione di richieste, nella ricerca di sicurezza materiale. Nelle nostre società la costruzione di un mondo comune, la costruzione di un senso di appartenenza capace di dare un reale significato alla cittadinanza, non può più giungere soltanto dalla costruzione di una nuova «religione politica», di ideologie che compongano scampoli di vecchi schemi ideologici.

Le società occidentali hanno definitivamente consumato il potere seduttivo delle ideologie novecentesche.

Ed è proprio in questo contesto che il rapporto fra fede e ragione, fra religione e democrazia torna a diventare fondamentale. Oggi – come ha osservato Jürgen Habermas – le nostre società sono diventate società post-secolari: vale a dire, società in cui, seppure non si sia interamente perduta la fiducia nella modernità, il suo mito e la convinzione della automatica diffusione dei suoi benefici risultano profondamente logorati. Per questo, Habermas invita i cittadini laici a «un superamento autoriflessivo della visione laicista che la modernità laicista ha di sé». La presenza della religione e del senso religioso nell’ambito pubblico è oggi essenziale per rafforzare i caratteri costitutivi della convivenza sociale, le qualità del sistema democratico, il suo normale funzionamento. Più che intendere il ruolo pubblico della religione nei termini di una minaccia nei confronti dello spazio laico della Res publica, è infatti possibile concepire la partecipazione dei credenti al dibattito pubblico – e la pubblica manifestazione della loro fede – come articolazioni differenti della razionalità, come espressioni – per usare la formula di Habermas – di un «disaccordo ragionevolmente prevedibile». Ciò non significa affatto che la religione – in determinate circostanze – non possa dar luogo a cedimenti della ragione, a derive settarie e a forme di fanatismo. E non significa neppure che la religione debba puntare a indicare e a imporre – a credenti e non credenti – le norme morali dell’azione politica. Piuttosto, il ruolo della religione è di aiutare la ragione nella ricerca di norme morali. Come ha affermato Benedetto XVI nel suo discorso a Westminster Hall, il 17 settembre 2010: «Il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi». Il ruolo pubblico della religione in una società post-secolare non consiste infatti nella supplenza nei confronti di una sempre meno efficace trascendenza politica. E non consiste neppure nell’imporre una verità valida come fondamento della convivenza comune. Piuttosto, si tratta di un ruolo correttivo: un ruolo che si mostra tanto più proficuo, quanto più fede e ragione si trovino fra loro in costante dialogo. Come ha ricordato ancora Benedetto XVI nella stessa circostanza: «Il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà». Lorenzo Ornaghi  – Avvenire

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