Il Vaticanese

Ebrei e Cattolici insieme per dire “SI” alla vita. Quinto comandamento: “Non Uccidere”

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La domanda del Signore a Caino, «Dov’è Abele, tuo fratello?», è come un grido di dolore con cui Dio chiede conto della prima morte violenta nella storia della salvezza. Con il delitto che viene narrato all’inizio del Pentateuco, la Bibbia mostra come il «sì» alla vita e la condanna dell’omicidio siano principi irrinunciabili. Concetti che, dopo il diluvio, il Signore ribadisce quando stabilisce un’alleanza con l’umanità rappresentata da Noè e dalla sua discendenza: «Del sangue versato, ossia della vostra vita, io domanderò».

Ed ecco che il Vivente interverrà, poi, per salvare Isacco legato sul monte Moriah, Giuseppe venduto dai fratelli o il popolo ebraico schiavo in Egitto. Finché, con il passaggio del Mar Rosso, il patto sul Sinai sancisce in modo definitivo il diritto alla vita. Lo fa nella prescrizione Non uccidere, sesta Parola del Decalogo (il quinto comandamento secondo la tradizione cattolica) che quest’anno è al centro della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei. L’appuntamento che è giunto alla sua 23ª edizione viene celebrato oggi in Italia. «Le due esperienze religiose – spiega il vescovo di Pistoia, Mansueto Bianchi, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei – sono poste sulla frontiera della vita, della sua origine e del suo significato. Questo è peraltro un tema caldo nel rapporto con la cultura contemporanea, soprattutto in Occidente. Perciò credo che ebraismo e cattolicesimo siano chiamati ad annunciare con forza la sacralità della vita come dono di Dio».

Lo sottolinea anche Elia Enrico Richetti, presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, che con Bianchi ha firmato la presentazione del sussidio Cei per la Giornata: «Nel contesto attuale la sesta Parola ci pone un’infinità di interrogativi. Pensiamo alla mancanza di cibo o acqua che porta alla morte di migliaia di persone oppure ai quesiti che investono l’etica medica, oltre naturalmente all’eterno problema delle uccisioni che nascono da contrapposizioni, scontri o guerre». Così l’istanza divina proposta nel Decalogo diventa appello alla responsabilità. «Il quinto comandamento – dichiara il vescovo di Pistoia – esorta al coraggio della profezia come impegno a riconoscere, custodire, promuovere la dignità della vita umana». Dal suo concepimento alla conclusione naturale, evidenzia il messaggio congiunto in cui si censurano il «dominio umano sulla vita», il «diritto di decidere del suo valore o della sua durata» e «il concetto di eutanasia attiva».

Nella legge affidata a Mosè, Non uccidere è collocato al vertice della seconda tavola, mentre la prima inizia con Io sono il Signore tuo Dio. Un parallelismo che, per la tradizione rabbinica, ha un significato preciso. «Chi uccide – afferma Richetti – non fa altro che distruggere ciò che Dio ha creato. Ed è un messaggio che viene trascurato troppo facilmente. Spesso l’uomo, essendo capace di modificare a suo vantaggio il creato, tende a dimenticare l’esistenza di un Creatore e, anzi, si ritiene lui stesso creatore. Invece il richiamo al fatto che ogni cosa ha un unico fattore porta, da un lato, all’umiltà e, dall’altro, al rispetto di ogni creatura».

La Torah e i profeti hanno tradotto il comandamento nella difesa dei più deboli: l’infanzia, la donna, lo straniero. E poi ci sono poveri. «Oggi siamo di fronte a nuove forme di bisogni che ci sollecitano a intervenire – dice il presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia –. Non a caso in ebraico il denaro è chiamato damaym ed è il plurale di dam che vuol dire sangue. Effettivamente, quando si negano i diritti alla sopravvivenza, si ammazza di fatto l’uomo».

Dal 2006 la Giornata voluta dalla Cei ha scelto di riflettere sul Decalogo. Negli anni scorsi sono state toccate le prime cinque Parole che pongono l’accento sul rapporto fra il Signore e l’uomo. Dall’appuntamento odierno l’attenzione si sposta sulle norme di carattere sociale. «Nella cultura europea – afferma Bianchi – è diffuso il pensiero che la vicenda della fede resti racchiusa dentro l’interiorità della persona, con riferimento alle sue personali scelte di valore e di significato, senza ricadute su livello giuridico e sociale. In realtà la fede biblica diventa costruttrice della storia e motivo aggregante di una vicenda collettiva». Del resto, chiarisce Richetti, «non esiste un autentico rapporto sociale senza un contatto con Dio. E non può sussistere un rapporto con il Signore senza essere in armonia con la comunità».

La Giornata si celebra dal 1990 alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «In un mondo dove i contatti sono sempre più stretti – spiega il presidente dell’Assemblea dei Rabbini – è importante la conoscenza reciproca che rappresenta l’unico strumento per sconfiggere l’ignoranza e quindi i pregiudizi». E Bianchi chiosa: «Dopo tanti silenzi o tanti gridi che hanno attraversato i secoli, questa iniziativa dona la possibilità di un colloquio che dispone ad ascoltare le ragioni dell’altro e le meraviglie che il Signore opera nella storia di ciascuno. Il dialogo è insieme la gioia e lo stupore dell’incontro, la constatazione della differenza, la speranza di poter procedere insieme verso la direzione che Dio ci indica».

 

a cura di Giacomo Gambassi e Mauro Bianchini (Avvenire)

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