Primavere Arabe: ripensare il dialogo

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primavere arabe

“Gli avvenimenti di questi giorni confermano che le ‘primavere arabe’ fanno molta fatica ad ottenere risultati positivi e fanno intravvedere che il loro percorso verso la democratizzazione sarà lungo e irto di ostacoli”; al tempo stesso chiedono all’Occidente e, in particolare, all’Europa di “ripensare e rifondare un rapporto che non ha mai realmente portato allo sviluppo economico e sociale” dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (Mena, Middle East and North Africa), ma “ha piuttosto oscillato tra tentazioni neocolonialiste e ancestrali paure verso il mondo islamico”. Guarda in particolare a Egitto e Siria Rony Hamaui, ebreo arabo, docente di economia all’Università cattolica e autore del volume “Il Mediterraneo degli altri. Le rivolte arabe fra sviluppo e democrazia” (Egea editore, ottobre 2011), intervenuto il 22 novembre a Roma all’incontro “Il Mediterraneo, nuova sfida per l’Europa”, ospitato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea.

Dignità e identità. Rispetto ai numerosi Paesi che nell’Europa dell’Est, in America latina e, perfino, in Africa “negli ultimi 30 anni hanno conosciuto un’evoluzione in senso democratico”, come spiegare la “deprecabile eccezione” dei Paesi Mena, la cosiddetta “anomalia araba?”, si chiede Hamaui, secondo il quale “non esiste una risposta univoca. Per i Paesi del Golfo è stata elaborata la ‘teoria della maledizione del petrolio’: Stati molto ricchi con basso livello di tassazione ed elargizione di sovvenzioni e sussidi per guadagnare consenso, e forti investimenti nel settore della difesa”. Per gli altri si tratta di un mix di fattori: “Scarsa apertura al resto del mondo, società frammentate a livello religioso, etnico, culturale, di tradizioni: elementi di debolezza che frenano il processo democratico”. Secondo Franco Rizzi, docente di storia dell’Europa e del Mediterraneo (Università Roma Tre) e autore del libro “Mediterraneo in rivolta” (Castelvecchi, Roma 2011), “per comprendere queste rivoluzioni occorre rivalutare concezioni e valori completamente annientati per decenni da una o più dittature, a capo delle quali sono stati uomini spesso aiutati dall’Occidente a conquistare il potere”. “Un giovane che si dà fuoco sulla piazza lo fa per rivendicare dignità – precisa -, e anche oggi il popolo egiziano sta facendo una lunga marcia verso il traguardo della propria identità; dignità e identità, prima ancora che democrazia”.

Dove sta andando il Mediterraneo? “L’Occidente – ammette l’economista Luigi Ruggerone, coautore con Hamaui del primo volume – ha indubbiamente tentennato e non ha compreso fin dall’inizio. Mubarak aveva comunque garantito per 40 anni la stabilità della regione. Contro Gheddafi non era possibile far intervenire la Nato senza il beneplacito Usa. In questi decenni la politica dell’Europa è stata molto miope, volta quasi esclusivamente a procurarsi sbocchi commerciali. Qualche spiraglio sembra venire dal G20 di Marsiglia dello scorso settembre che ha stanziato 111 miliardi di dollari in due anni per lo sviluppo di questi Paesi che hanno skills e risorse umane, ma non economiche”. “Non basta mettere i soldi sul tavolo – replica Rizzi -. L’Europa dovrebbe interrogarsi su dove sta andando il Mediterraneo e sulle politiche globali che dal Trattato di Roma ha sviluppato nei suoi confronti; occorre una fase di riflessione e ripensamento per togliere di mezzo le politiche fatte di mistificazioni e i luoghi comuni sui quali per anni abbiamo vissuto”. “L’Europa non deve offrire solo aiuti economici e tecnologie – precisa Hamaui -; deve soprattutto mettere a disposizione il proprio know-how istituzionale, ma per fare ciò servono leader politici illuminati e unità di intenti tra i partner Ue”.

Il peso sulle coscienze. Hamaui si dice “molto positivo sulla Tunisia che sembra ben avviata”, e invece “molto preoccupato per l’Egitto – che oltretutto gioca da sempre un ruolo di leadership politica e culturale nella regione – per lo Yemen e la Siria”. “Il successo o l’insuccesso delle rivolte – sostiene – spetterà soprattutto agli stessi arabi, ma senza una classe media forte e senza sviluppo economico e culturale è molto difficile che l’anelito alla democrazia basti a portare il processo a buon fine”. “Occorre anche che l’Occidente accetti l’idea di una democrazia di stampo islamico – aggiunge Ruggerone -; non l’abbiamo mai vista, mettiamola alla prova”. Rimane aperta la questione Siria, dove durano da oltre un anno le manifestazioni di piazza con un bilancio di quasi quattromila morti – nella sola giornata del 22 novembre sono stati uccisi cinque bambini – mentre molti parlano ormai di guerra civile e di emergenza umanitaria, Russia e Cina appoggiano Bashar el Assad, e il presidente turco Abdullah Gul definisce “inevitabile” un cambiamento ai vertici di Damasco, ma “senza interventi esterni”. “Quattromila morti – sostiene Hamaui – pesano sulle nostre coscienze, ma occorre essere molto prudenti prima di intervenire perché la Siria è un Paese complesso e frammentato dal punto di vista politico, etico e culturale. Anche l’opposizione è molto divisa al proprio interno”. “Se ‘scoppiasse’ la Siria”, conclude Rizzi pensando alle questioni aperte con l’Iran e la Turchia, “lo scenario potrebbe diventare apocalittico. Almeno per ora sembra prevalere la logica del male minore”. sir

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