Papa Francesco ricorda il medico morto per scoprire come curare la Sars

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Intervista a Maria Concetta Scaglione Urbani, la mamma di Carlo Urbani, il medico e microbiologo italiano che è morto dieci anni fa di Sars in Vietnam dopo averne scoperto la cura. Perché essere medico è una missione, è una vocazione.

Carlo Urbani nonostante fosse marito, padre non ha rinunciato ad andare avanti nelle sue ricerche scientifiche per salvare vite umane dalla malattia che stava studiando. La sua vocazione nel curare i malati, in Cristo, non è diversa in fondo da quegli ottocento martiri che sono stati uccisi per non avere rinnegato la fede in Gesù nonostante, qualora lo avessero fatto, gli venissero restituiti gli affetti in cambio dell’abbraccio con la fede islamica. Laicamente, l’essere coerenti e normali oggi è essere santi. E grazie ad Urbani in moltissimi vengono curati a cominciare dai casi italiani di questi giorni a Firenze. Moltissimi malati che rappresentano il volto di Cristo e che vengono guariti grazie ad un solo medico e ad una sola vita.

Ancora una volta citando la frase di Urbani nel decennale della sua scomparsa “Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro” – Papa Francesco suggerisce sempre a tutti, in particolare ai giovani, di guardare in alto, credendo nei grandi ideali.

V.N.

Di seguito riportiamo l’intervista alla mamma del dott. Carlo Urbani.

 

“Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro”. Scriveva così Carlo Urbani, il medico italiano che dieci anni fa, all’età di 47 anni, moriva di Sars in Vietnam dopo aver individuato il virus e salvato il Sudest asiatico dalla pandemia. “Non sapremo mai quanti milioni di vite ha salvato”, commentava l’allora segretario generale Onu, Kofi Annan. In occasione del decennale dalla scomparsa, Papa Francesco in un messaggio rende grazie a Dio per il bene operato da Urbani e incoraggia a proseguirne l’opera. “Tutta la vita di Carlo, fin da bambino, fu improntata alla fede e al servizio del prossimo”, ricorda la madre Maria Concetta Scaglione Urbani.
R. – Non accetto la parola “morte”: per me Carlo continua a vivere, vedendolo attraverso i suoi figli, coltivandone quei valori che sono eterni e che costituiscono una testimonianza perché altri possano camminare adottandoli. La sua fu una vita attenta agli altri, disponibile a partecipare ad associazioni come l’Unitalsi, campi di lavoro di “Mani Tese”. C’è stata sempre questa ricerca di vivere con gli altri e per gli altri.

D. – L’esemplarità di suo figlio va oltre l’aver dato la vita a 47 anni, cioè è iniziata ben prima…

R. – Esatto. Sottolineiamo anche un’altra grande virtù che è il suo carisma: il saper coinvolgere gli altri. Gli altri erano i suoi compagni di gioco, i suoi amici, i compagni di scuola…

D. – Una testimonianza cristiana, che poi si è palesata ancor di più, in particolare dieci anni fa, quando di fronte al dilagare della Sars e di fronte anche alla possibilità di tornare in Italia, lui scelse di restare in Vietnam, ponendo a rischio la sua vita…

R. – Premesso che è andato in Vietnam con una bimba che aveva solo due mesi, quando poi ha capito l’entità dell’epidemia ha invitato la moglie Giuliana e i tre figli a tornare in Italia. I ragazzi tornarono, ma Giuliana volle restare vicino a lui fino alla fine.

D. – L’allora segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, scrisse: “Non sapremo mai quanti milioni di vite ha salvato”. Questo “tutelare la vita” è la sua eredità più grande…

R. – Infatti, difendere la vita per gli altri. Il sogno di Carlo era quello di aiutare gli altri. Ma aiutare gli altri non in un senso solo di abnegazione, perché lui lo sentiva nel cuore: perché così si arricchiva lui; era il suo cuore che gioiva, era la sua disponibilità. Poi Carlo – riferendosi a quei Paesi nei quali ha riversato tutto il suo amore, la sua professionalità, la sua umanità – aveva chiesto che per tutti fosse difeso il diritto alla dignità e alla salute.

D. – In questa chiave si può leggere anche il suo impegno contro le speculazioni del mercato dei farmaci…

R. – Il messaggio di Carlo: “Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro”. Allora, ognuno di noi rifletta sul fatto che si sogna fin da ragazzini ed il lavoro è il nostro cammino per il quale possiamo essere utili agli altri, ma soprattutto arricchire anche noi stessi.

D. – C’è una caratteristica che rende nobile qualunque lavoro di responsabilità come quello che era svolto da suo figlio: il servizio. Per Carlo Urbani, essere medico significava servire…
R. – Significava servire. Quando a “Medici Senza Frontiere” hanno dato il Nobel per la pace, Carlo mi ha telefonato: “Mamma accendi la televisione! Ci hanno dato lo stesso premio che avevano assegnato a Madre Teresa di Calcutta”. I testimoni debbono servire perché siano di esempio, non per qualcosa che ci deve commuovere e basta. Secondo me, va ricordata la figura di Carlo come testimone di valori che debbono essere coltivati.

D. – Non morendo, ma, come lei ha giustamente specificato, donando la vita suo figlio ha lasciato una famiglia, ha lasciato lei, ha lasciato la moglie e tre figli…
R. – Ha lasciato una testimonianza, un impegno nel volontariato che coltivano i fratelli di Carlo, che continua la moglie di Carlo. Con emozione da qualche tempo, il figlio maggiore, Tommaso, parla testimoniando la sua vita accanto al padre. Aveva 16 anni quando Carlo è passato ad altra vita. Tommaso ne continua a parlare come padre. In casa lo ricordiamo come medico, marito, padre e figlio meraviglioso.

Fonte, Intervista di Paolo Ondarza, Radio Vaticana.

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