Cardinale Scola: virtù, gratuità e amicizia. Così rinasce la vita civica

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Cardinale Angelo Scola - Patriarca di Venezia

Avvenire – intervista esclusiva al Cardinale Scola a cura di Marco Tarquinio e Francesco Ognibene – Da tempo ormai non si vedeva a Milano una nebbia come quella che sveglia la città al mattino e la avvolge al tramonto in queste intirizzite giornate di novembre. È una coltre legge­ra che sfuma i contorni, rende labile la fi­sionomia delle cose. Quasi una metafora dei tempi che attraversiamo, e che osser­vando la città dalle finestre della sede ar­civescovile su piazza Fontana richiama un’immagine ambientale cui il cardinale Angelo Scola ha fatto ricorso da patriarca di Venezia: il malfermo incedere sull’acqua di una società incerta e confusa. Nebbia e acqua: cambia la scenografia, non l’in­quietudine e la sfida. Nell’ora e mezza di colloquio che il cardinale concede ad Av­venire – la prima intervista da quando è tornato nella ‘sua’ terra ambrosiana, il 25 settembre – sfide e impegni per la Chiesa, i credenti, la città si intrecciano in una tra­ma e in una visione nella quale siamo tut­ti presenti.

Eminenza, lasciataVenezia, in questi due mesi che Chiesa ha trovato a Milano?
Circostanze provvidenziali hanno fatto sì che, la scorsa settimana, io abbia potuto compiere un breve pellegrinaggio in Ter­ra Santa con 700 veneziani a conclusione della Visita pastorale. Perché andiamo in Terra Santa? Per calcare le orme di Gesù. Quando sosti davanti al Sepolcro, quan­do metti la faccia nella cavità dove venne piantata la sua Croce, o vai alla fontana dove sai che Maria e probabilmente Gesù stesso hanno attinto acqua, percepisci la presenza imponente e reale di Cristo. U­na presenza che vince la storia. Di questo la Chiesa è sicura. Il tarlo che rode oggi tanta cultura e anche molti battezzati è l’obiezione per la quale Cristo sarebbe un fatto del passato. Invece Cristo ci è con­temporaneo. Per venire alla domanda, nel popolo ambrosiano ho potuto cogliere la presenza attuale del Signore.
Come essere all’altezza di questo compito?
Il punto è questo: prendere coscienza che noi siamo, per dono dello Spirito, il ‘segno’ e lo ‘strumento’, come si legge in Lumen Gentium, della contemporaneità di Cri­sto. Perché, come Kierkegaard ha acuta­mente affermato, solo chi mi è contem­poraneo mi può salvare. Il non esserne sempre coscienti genera un ‘fare’ carico di generosità, ma spesso frammentato e, quindi, difficilmente comunicabile. Se si perde la consapevolezza di questo punto originario che garantisce l’unità dell’io e della comunità, l’azione ecclesiale rischia di ridursi a erogare ‘servizi’. La fram­mentarietà è un’insidia molto pericolosa.
Vede un eccesso di attivismo?
Il problema è dove poniamo il baricentro del ‘fare’: sull’organizzazione o sull’espe­rienza di un rapporto – quotidianamente rinnovato – con Gesù e con i fratelli? A vol­te è come se ci fosse una strana reticenza a comunicare Colui che ci muove, che è il Signore. La testimonianza dev’essere u­mile, ma è inesorabile. Non si può essere tiepidi. Ci sono però fronti del ‘fare’ in cui la novità dell’io cristiano è prorompente. Penso, soprattutto, alla condivisione del­le fragilità e del dolore. Lì il cuore dell’e­sperienza cristiana s’impone quasi da sé, perché in quelle condizioni si sperimen­ta la forza della fraternità tra gli uomini che Gesù ha suscitato nella storia.
Che cosa rende convincenti i cristiani oggi?
La via della testimonianza che scaturisce dall’esperienza di relazioni profonde, co­stitutive, che esaltano la libertà e passa at­traverso un modo di raccontarsi nel quo­tidiano quasi incontenibile e aperto a tut­ti. Qui sta il movente reale dal quale par­tire ogni mattina. Siamo appassionati al­la missione, cioè al comunicarsi pieno di gratitudine di ciò che gratuitamente ci è stato dato. Non cerchiamo l’egemonia sul­la società: i cristiani non sono gli agit-prop di un’azienda che devono vendere un mar­chio. Siamo gente che – per grazia di Dio e al di là di limiti, fragilità e peccati – ha sco­perto il gusto della vita. E questo inesora­bilmente tende a comunicarsi.
Appena arrivato a Milano, lei è andato in­contro alla città nel corso di quattro in­contri tematici con altrettante realtà vi­ve, e poi l’ha invitata a casa sua, in Duo­mo, per le Messe delle domeniche d’Av­vento. Che cosa sta incontrando di que­sto dialogo?
Ho trovato mondi stimolanti, una città co­sciente di essere sul proscenio europeo e mondiale. Ho voluto che il primo incon­tro fosse con chi opera negli ambiti della fragilità perché su questo fronte si vede il grado di ci­viltà di una società. Ho sot­tolineato l’unità della perso­na perché produce l’unità degli ambiti e dei mondi in cui vive e opera. La fram­mentarietà è la causa di tan­ti inconvenienti anche a li­vello sociale. Invece la vera genesi di una società civile, come diceva Aristotele, è la filìa, l’amicizia civica. Ne ab­biamo bisogno più che mai, in questo tempo di grave af­fanno. Per arrivare a una a­micizia civica di questo tipo serve buon governo a tutti i livelli, dalla famiglia al condominio, dal quartiere alla città, dal Paese all’Europa.
Unità, amicizia civica, buon governo: co­me ci si riappropria di queste categorie nel concreto?
Il Papa nella Caritas in veritate indica la ne­cessità di allargare la ragione politica, eco­nomica, culturale attraverso la logica del dono, del ‘gratuito’. Ma, attenzione, il gra­tuito non è ciò che è ‘gratis’. Il gratuito è pensare, fare, realizzare un’opera perché è buona in sé, perché è bella in sé. Antepo­nendo il valore oggettivo dell’opera in sé e per sé all’utile o all’interesse che se ne può ricavare. L’utile e l’interesse hanno certo la loro importanza, ma prima viene la cosa in sé. La filìa e il buon governo fioriscono da questa dimensione gratuita del civile, del sociale, del politico, del culturale. È que­sto che rende unita, feconda e virtuosa u­na società perché introduce una dimen­sione veritativa nella relazione di cittadi­nanza. Se una città lucida come Milano sottovaluta questa idea del gratuito, non riuscirà a sprigionare tutto ciò che ha den­tro in termini di risorse e prospettive.
Lei ricorda spesso che oggi le persone – i cittadini, i credenti – stenta­no a rimettere insieme le di­mensioni della propria vita. Qual è il motivo profondo di questa sua preoccupazione?
La frammentazione dell’io ac­centua l’inconveniente della post-modernità che consiste nella caparbia affermazione di una identità personale indivi­dua e isolata, per cui i legami sono sentiti come un’obiezio­ne alla libertà, mentre sono u­na condizione della nostra libertà. È que­sto che i cristiani propongono nella sfera civile, perché è la loro esperienza norma­le. Ed è la prima ‘politica’ che sono chia­mati ad attuare.
Come si rigenerano relazioni che sem­brano a volte tanto logorate da apparire irrecuperabili, anche nella comunità cri­stiana?
L’uomo si muove veramente solo per con­vinzione. Domandiamoci per un istante: cosa davvero mi persuade? Mi persuade il percepire con chiarezza che la sequela di Cristo mi ‘conviene’, che seguendo Cri­sto sono più compiutamente uomo: amo, lavoro, condivido, ho sete di giustizia e di pace, vivo tutto, persino la morte, in maniera diversa. Che questa sia la stra­da per invertire la rotta ce lo documen­tano i martiri, come Bhatti, il cristiano pakistano ucciso mentre difendeva la li­bertà dei suoi fratelli, o il priore di Tibhi­rine. Da dove è venuta loro quell’energia che li ha condotti fino al dono totale di sé? Dall’aver visto e toccato, nella fede, che questa prospettiva consente di vivere sin d’ora un’umanità potente, un anticipo di vita eterna. Più che mai nell’attuale fran­gente storico di transizione rapida e non senza traumi, i cristiani sono chiamati a passare da una fede per convenzione ad una fede per convinzione.
E questo come si declina per la sua Milano?
Nel milanese, per esempio, si può ancora sperimentare il gusto del lavoro di cui par­la Péguy: è il lavoro in sé che deve essere ben fatto, al di là del suo valore di merca­to. Si percepisce che esso consente di crea­re una trama di relazioni tendenzialmen­te buone con gli altri e col creato. Ma se il lavoro è vissuto in maniera separata dagli affetti, può anche assumere una fisiono­mia parossistica (il ‘lavorismo’, un difet­to molto milanese). La persona ha bisogno di un centro: se c’è, tutte le dimensioni vi­tali si dipanano armonicamente e, anche quando entrano in tensione, non spezza­no mai l’unità dell’io.
Anche in questo senso la Chiesa resta un punto di riferimento per la sua risposta alla grande questione irrisolta del no­stro tempo, che è quella educativa. Co­me si rende persuasiva oggi la ‘vita buo­na del Vangelo’ cui sono dedicati gli O­rientamenti della Chiesa italiana per il decennio?
Penso a comunità cristiane dove si pos­sano invitare le persone, dicendo loro, come Gesù ai suoi: ‘Venite e vedete’. Co­munità che assecondino fino in fondo la realtà a partire dal dono che Gesù ci fa di sé, attraverso il quale ci rende fra­telli. Nel mondo in cui viviamo questa non è un’affermazione statica, ma è sempre preceduta da un ‘andare’ – quello quotidiano di ciascuno di noi: a scuola, al lavoro, nel quartiere – ascol­tando il bisogno dell’altro… Si tratta, per me cristiano, di invitare chi in­contro nella comunità cristiana, che è casa mia. La Chiesa è una grande famiglia, non un’azienda.
Eppure,sui media e in certe po­lemiche, si tende a propor­re proprio così l’immagine della Chiesa, come una sorta di ‘azienda’ tra le altre, meno convincente e popolare di altre…
Quello italiano resta un cristianesimo di popolo. Non è una mera questione di chie­se più o meno piene, ma di riconoscere che larga parte del nostro popolo è ulti­mamente riferita alla grande tradizione cri­stiana. Il punto è come accompagnare mo­dalità diverse di partecipazione a una ap­partenenza piena alla Chiesa: quella del­l’impegnato che si coinvolge oltre la Messa festiva, quella del cristiano della domenica, di chi frequenta solo talune feste, di chi viene solo per un matrimonio, un battesimo, un funerale, di chi si sente cattolico ma ha perso la stra­da di casa. Il problema, oggi, è come irrobustire anche la più esile pianticella. Sono convinto che questa azione ecclesiale abbia inevitabil­mente un influsso benefico sulla società civile. Nella sto­ria di Milano è stato sempre così. Bisogna forse tornare a capire che non è anzitutto la legge a fare un cittadino in senso pieno, ma la virtù. San Tommaso diceva che lo scopo della legge è educare a vivere se­condo virtù.
Recentemente lei ha parlato di un Pae­se ‘esausto’: da cosa può riprendere e­nergia?
Alla vita civica sono necessari atteg­giamenti virtuosi. Altrimenti anche il sacrosanto discorso su moralità e legalità si scontra con la strutturale fragi­lità umana. Occorre tornare alla sostan­za virtuosa della vita personale e associa­ta, a uno stile di vita in cui ogni atto sia po­sto secondo tutta la pienezza di bellezza, bontà e verità che gli è propria.
E sul piano pubblico, su cosa si può fare perno?
Qui mi aiuta Venezia: tutta la laguna è punteggiata dalle ‘brìcole’, grandi pali solidi che delimitano i canali dove le im­barcazioni possono navigare senza in­sabbiarsi. Ecco: noi abbiamo bisogno di qualcosa di solido per orientarci, di rife­rimenti certi, a partire dalle relazioni pri­marie costitutive: la famiglia, la città, il quartiere, la parrocchia… In questo – vo­glio sottolinearlo – l’Italia ha un indubbio vantaggio: la nostra società civile è certa­mente la più ricca d’Europa.
Se ne sono accorti coloro che fanno di questa nostra realtà un modello: la big society…
Già, non esiste popolo che come il nostro dia vita in continuazione a realtà asso­ciate a tutti i livelli. Bisogna continuare, pazientemente, a costruire dal basso, in modo che la politica torni a essere se stes­sa, cioè a governare e non a gestire la so­cietà civile.

Nell’omelia del suo ingresso a Milano ha parlato del ‘mestiere di vivere’ che schiaccia ‘uomini e le donne delle ge­nerazioni intermedie’. Che cosa inten­deva dire?

Mi preoccupa che le generazioni inter­medie, dai 20 ai 60 anni, siano come spa­rite dalla vita ecclesiale, e spesso da quel­la civile, perché oppresse dall’affanno del quotidiano, dai ritmi di lavoro, dalle feri­te affettive. Normalmente queste perso­ne non sono contrarie alla fede, ma non vedono più che cosa c’entri con la loro e­sistenza. Ecco perché l’azione della Chie­sa deve spingersi negli ambienti di vita, tra le persone. La parrocchia resta centrale, perché è la ‘chiesa’ tra le case, ma non possiamo più aspettare le persone sotto il campanile.
Milano si accinge a ospitare l’Incontro mondiale delle famiglie, a fine maggio 2012. Che cosa si aspetta?
Sono tre gli aspetti per me preziosi di que­sto grande evento fortemente voluto dal cardinal Tettamanzi. La scelta del tema è di per sé molto felice: offre un’occasione straordinaria per ricondurre a unità le di­mensioni di vita comuni a ogni uomo: gli affetti, il lavoro, la festa. L’evento come ta­le, poi, metterà alla prova il nostro senso di ospitalità. Molte migliaia di famiglie giungeranno da tutto il mondo. Se c’è u­na terra dell’ospitalità, è quella ‘terra di mezzo’ che è Milano. Potrà inoltre sug­gerire uno stile con cui guardare da una prospettiva nuova il problema dell’im­migrazione. Lo si può affrontare con e­quilibrio, restando magnanimi.
E ci sarà il Papa…
E questo è il dono più grande. Papa Bene­detto viene a noi, e non come uno che ar­riva da fuori: il successore di Pietro è, per sua natura, immanente a ogni Chiesa par­ticolare. La sua straordinaria venuta ci aiu­terà a capire la sua presenza ordinaria tra noi. Diventerà un’occasione per riscopri­re questo fattore che dà pienezza e senso compiuto alla nostra Chiesa ambrosiana. Inoltre consente a noi cristiani di ricorda­re che il compito affidato a Pietro da Ge­sù stesso è di confermare i suoi fratelli nel­la fede. Ciò vuol dire che qualunque cri­stiano ha bisogno di ‘essere confermato’ dal successore di Pietro, nessuno di noi può farcela senza questo elemento. Gesù non ha fondato la sua Chiesa sull’intelli­genza di umani ragionamenti, ma sugli a­postoli in unità con Pietro.
A Milano, come altrove, si propongono più modi di intendere e definire la fa­miglia…
Propongo di tornare alle cose in se stesse, chiamandole col proprio nome. Il nome ‘famiglia’ si addice al matrimonio inteso come rapporto pubblico, stabile, aperto alla vita tra un uomo e una donna. Abbia­mo rispetto per tutte le persone, non c’è alcuna pretesa di giudicare chi non con­divide questa nostra visione e pensa di po­ter realizzare diversamente la propria per­sonalità e la propria sfera affettiva. Siamo aperti a veder regolate in termini rigorosi le loro richieste ma senza che questo, an­dando oltre la sfera di un adeguato dirit­to privato, alteri direttamente o indiretta­mente l’autentico concetto di famiglia.
Chi più risente del respiro corto della no­stra società sono i giovani, inquieti, ‘in­dignati’, talvolta anche arrabbiati. Che cosa dire loro?
Quando li incontro, e a Milano mi è già ca­pitato più volte in breve tempo, faccio no­tare come tutti dicano loro che sono ‘il fu­turo’, ma questo non sarà possibile se non sono il presente. Ciò domanda educazio­ne, che consiste nel trasmettere ai giova­ni il senso compiuto del vivere. Penso che la scuola e l’Università vadano ripensate in termini non solo di riforma strutturale, ma di concezione. Il rapporto col mondo del lavoro, poi, non può essere puramen­te strumentale: l’educazione è dotata di un valore in sé, che viene prima della fun­zionalità dell’esito scolastico. Al di fuori di questo largo orizzonte, ogni discorso ri­volto a giovani suona demagogico.

 

Marco Tarquinio e Francesco Ognibene
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